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Quello strano giorno in cui compivo cinquant’anni

di Patrizia Ciribè*

Sembrava un anno come tanti. Ma non lo era. E lo avevo capito sin da quei primi giorni di gennaio, dal modo con cui le giornate si erano fatte pesanti e disallineate. C’era come una specie di diacronia nell’aria, come se il tempo, d’un tratto, mi fosse sconosciuto; come se non potessi danzarci all’interno.

Ma continuai a rincorrere quella melodia, cercando di ritrovare il ritmo, cercando di rimettere a posto il mio battito con il suo.

Forse ci stavo riuscendo. Forse. Ma quel giorno, il 30 di marzo, avvertii anche uno strano dolore dietro alle spalle, come di qualcosa che mi si era posato addosso troppo repentinamente.

Avevo cinquant’anni da poco, li avevo compiuti da circa due ore. Mi sembrava un numero bello, il cinquanta. Quel cinque, insieme alla mia strana propensione per i numeri dispari, mi riportò a quando davanti c’era il tre. Ripensai ai lontani trent’anni, anni bellissimi, anni di giovinezza. Poi ai quaranta che erano andati via velocemente, amati e persi troppo presto.

Devo spiegare che ho una percezione balzana della mia età: invecchio e ringiovanisco in modo altalenante, seguendo uno strano ritmo che potrebbe sembrare una musica di Stravinskij. Per questo, a vent’anni ero vecchia e a trenta molto giovane. Ma quando di anni ne compii cinquanta, non ebbi modo di definire me stessa, perché in quel periodo c’era la quarantena. Mi trovai così a galleggiare senza percezione della mia età, né giovane né vecchia, solamente con una coscienza sconnessa…e un peso sulla schiena!

Uscii di casa ed ero stranamente pesante, come se portassi addosso qualcun altro, oltre a me stessa; qualcuno o qualcosa che mi schiacciava le ossa dorsali causandomi dolore.

Ma non me ne curai e uscii per andare a fare la spesa.

In un giorno che era sempre stato per me straordinario, e che era divenuto banale per via dell’impossibilità di festeggiarlo come si deve, decisi di fare qualcosa che un tempo era stata banale e che ora creava parecchio scompenso.

Dover uscire in quel deserto silenzioso, con sul viso e alle mani gli accessori precauzionali, rendeva la pratica dell’approvvigionamento eccitante come la battuta di una caccia preistorica. Così, con indosso i miei complementi di fortuna, e camminando nella solitudine, salutai mio marito addormentato, guardai le mie gatte attorcigliate sui termosifoni accesi, e uscii di casa.

In giro non c’era nessuno, solamente io, con il mio peso dolorante sulla schiena. Pensai che forse stavo morendo, perché quello che vidi immediatamente fu come una specie di purgatorio che sbircia il paradiso da sotto; come se ci fosse un buco di nuvole gonfie e sopra di esse qualcosa di incomprensibile.

Continuavo a camminare per la strada, che era diventata lunga in modo anomalo, come se non avesse una fine, una curva, un ostacolo, niente. Ma ciò che davanti a me si faceva sempre più evidente era questo squarcio in mezzo al cielo, come se al suo posto, al posto del cielo, ci fosse solo quella grande e spumosa apertura.

Non vi era alcuna possibilità di capire cosa ci fosse lì sopra, cosa fosse quella luce abbagliante che cadeva a raggiera sulla schiuma di mare, così continuai a percorrere questa strada infinita che portava in ogni luogo e in nessuno.

Dalla parte opposta al mare, c’erano tutte le case della mia infanzia, quelle che avevo abitato e quelle in cui ero stata per qualche ragione. Di queste, ne riconobbi una che aveva l’anomalia di essere congiunta a una lunga scala. La scala saliva ripida, prima scomparendo tra gli alberi e il fogliame selvaggio di un parco, e poi ricomparendo davanti all’entrata sontuosa della villa.

Era una grande dimora disabitata e un po’ lugubre, una di quelle case che sono state splendenti, ma che poi si sono svuotate di vita e di bellezza. Era come un’anziana donna che nel suo sguardo funereo ha anche un baluginare vago di vita, di ciò che un tempo era stata.

Anche se stava in alto, questa casa -non in alto come lo squarcio nel cielo, ma comunque parecchio al di sopra rispetto alla strada-, ne scorgevo l’entrata chiaramente, insieme alla sensazione di essere appena uscita da lì. Era la villa dei cento scalini, dove ero stata da bambina insieme alla mia amica del cuore; dove avevamo trascorso una giornata irreale, in uno di quei periodi della vita in cui ti sembra sempre di vivere un’avventura.

La porta si aprì pesantemente sui pavimenti a scacchiera che ricordavano tanto le stanze di Alice. C’era un maggiordomo, dei cani piuttosto inquietanti e una strana solitudine che somigliava a un ricordo triste. Era in effetti tutto quanto triste, ma anche felice, esattamente come in quella giornata che stavo vivendo, poche ore dopo aver compiuto i miei cinquant’anni.

Rividi quel momento, quello in cui io e la mia amica entravamo nella villa dei cento scalini, le nostre schiene infantili, e percepii la netta sensazione di essere morta. Morta e rinata come bambina.

Dentro alla casa c’era una ragazzetta con il viso da donna.

Fatto salvo per la servitù e i due cani neri, abitava da sola. Come fossi la me di allora, provai una pena adulta per quella padrona di casa, che in quelle stanze grandi e disabitate sembrava una bambola.

Era una domenica invernale, lo ricordo bene, e in pochi minuti del tempo normale, nel giorno in cui compii cinquant’anni, la rivissi tutta quanta.

C’era stata una sensazione iniziale di ammirazione per tutta quella bellezza caduta; poi una disperata solitudine in cui la bambina-donna viveva, come se qualcuno andandosene via l’avesse dimenticata lì da sola. Nei pochi minuti in cui divenni la me di allora, vissi lo stupore, poi la tristezza e infine lo smodato desiderio di tornare alla mia vita. C’era una richiesta di aiuto in quel visetto di fanciulla, la disillusione matura di una donna, mista alla cupezza di una vecchia.

Scendemmo le scale coperte da erbacce e licheni, io e la mia amica. Il buio della sera, di quell’umido Monte, era come un’ombra di nebbia con l’odore del sale. Lo lasciammo indietro quasi di corsa, Senza tentennamenti, tornammo alla nostra imperfezione. Alle nostre case raffazzonate, ai nostri genitori ordinari, alla nostra vita con ben poche certezze. Eravamo amate in modo imperfetto, amate comunemente, amate senza cognizione. Ma con continuità.

Passando davanti a quella casa, sotto a un cielo squarciato dal bagliore di una luce che sembrava un temporale eterno, percorrendo una strada senza fine, ricordai quel momento come se l’avessi appena vissuto. E lo rivissi da capo con la sensazione di avere perso qualcosa di me stessa.

Poco più avanti, tra onde alte e una spuma rumorosa di mare, mi trovai davanti a un’altra casa, una con il tetto a falde e con una finestra allegra da dove qualcuno salutava. Entrai anche in quella casa, salii per le scale e mi trovai in un piccolo ingresso. Camminando nel soggiorno, che aveva l’aspetto felice di un cane, sentivo i passi di qualcun altro, qualcuno che nell’altra stanza camminava muovendo le mattonelle esagonali. Ognuna di esse suonava una nota, insieme facevano una musica di vetro.

Sotto le coperte di un letto a castello, una bambina leggeva, la chiamai, ma era assorta e non mi sentiva. Siccome dovevo scappare, perché nuovamente mi stavo trasformando in un’adulta di fretta, feci le scale di corsa e uscii senza più dubitare. Quando mi trovai fuori, sul grande piazzale, un rumore di campanacci giunse alle mie spalle e mi spinse a voltarmi.

Non c’era più il mare e nemmeno la lunga strada: c’era un prato costeggiato da rovi, e nelle mani avevo un cesto pieno di more. Le raccoglievo dai rovi, mentre le mucche passavano dondolando la mole feconda e le mammelle piene di latte. Ciò che avevo in mano mi cadde a terra, guardai le mie scarpe sporche di fango e mi sentii oltremodo stanca; stanca e con lo stesso dolore alla schiena.

Mi sedetti un attimo sul muretto che costeggiava la mulattiera e, guardando in alto, vidi che lo squarcio di nuvole era sempre lì appeso. Aveva lo stesso bagliore di prima, come una cascata di luce che penetrava le onde. Il mare era apparso di nuovo, il mare sempre appare, e faceva un gran rumore di schiaffi e di sassi.

C’era, ora, una casa quadrata, azzurra, con due terrazze ai lati. Avevo risate nella pancia, ma il dolore che avevo alla schiena, e il peso che me lo causava, mi impedii di ridere come avrei voluto; ridere senza motivo.

Mi trovai su uno spazio esterno dove c’erano miagolii di gattini appena nati e una bambina, che non ero io ma che era come se lo fossi, che faceva cose da ballerina. Mi sedetti su di una sedia sgangherata e stetti lì a guardarla, quella lei-me, che si muoveva come se avesse una coscienza condivisa. Sbiadì, la persi, persi il momento per ridere di niente, e mi trovai davanti alla chiesa. Erano le cinque di sera, l’aria era velata di rosa e le campane suonano l’ora. Din don, la vita passa, dicevano.

L’ansia mi spinse verso un’altra casa che era stata la mia. Aveva un vecchio ponticello davanti all’entrata, che attraversava un fiume d’erba e di ghiaia.

Il crepuscolo era diventato notte, constatai che, per fortuna, la mia bicicletta era chiusa con il lucchetto, assicurata alla ringhiera davanti al portone. Una voce burbera d’uomo chiamava altre due bambine; una ero io, l’altra era bionda e rideva, “mio padre mi chiama”, diceva.

Entrammo di corsa nell’atrio, c’era l’odore che hanno le coperte al sole; un odore di casa e insieme di nonni, di dolce vecchiaia. Salimmo la scala di corsa, ridendo per come eravamo spettinate e in ritardo. Lei mi teneva la mano, “corri”, diceva “devo andare da mio padre”. Ma io lasciai la sua presa, era tardi, un tardi soffocante. Erano appena suonate le cinque, ma sembrava notte fonda e io dovevo andare; quell’ansia del tardi era ereditaria, una fissazione atavica e contagiosa. Entrai nell’ingresso, un quadrato di marmo nero, lucidissimo; entrai che avevo il fiatone.

In cucina, mia madre sedeva con i bigodini in testa, mi sorrise dicendo che mio padre era sul balcone a fare le conserve di pomodoro. Era nuovamente giorno, un giorno pieno di una luce accecante. Al posto del lungo balcone, delle rondini e delle corde da stendere, c’era mio padre, una grande quercia in mezzo a un terreno senza confini. Davanti a quell’albero eterno che oscurava ogni cosa, persino lo squarcio nel cielo, il mare era solamente un suono lontano e fiacco.

Mio padre era ora chino, intento a fare qualcosa. Si sedette sospirando e ammirai la sua barba, gli occhi di temporale, il cuore che gli pulsava nel petto.

Mi voltai, salii la strada di casa mia, che passava su un mare calmo e pieno di un rumore d’estate; un chiasso allegro di bambini e luoghi comuni.

Li davanti, c’erano il suo sorriso di un amore certo, gli occhi scuri, il suo braccio teso. Afferrai la mano e feci un balzo, per non calpestare i fiori sulle bare dei nostri gatti sepolti.

Guardai il mio carrello, era vuoto. Gli dissi che era tardi, che non avevo comprato niente. Piansi per quello, piansi perché in quella lunga strada mi era mancato, piansi perché non c’era nessuno, e perché quel qualcosa che avevo sulla schiena mi faceva male.

“Scendi da tua madre, che le fai male!”, ha esclamato mio marito rivolgendosi alla nostra gatta. Poi mi ha guardato con quel modo indubbio, che è lo stesso da ormai quasi vent’anni.

“Buon compleanno, amore”, ha detto.

Luthién è in piedi su di me, con le zampe puntate sulla mia schiena, vuole mangiare.

L’orologio sul comodino segna le nove un quarto. Sono nata un lunedì di cinquant’anni fa, già da due ore!

 

* Patrizia Ciribè è nata a Genova e vive a San Michele di Pagana, in un posto raggiungibile solamente a piedi. Parrebbe un po’ misantropa da questa descrizione, in realtà vive con un marito e due gatte.  

Una foglia caduta in estate è il suo terzo romanzo. Precedentemente, ha scritto Ada Gigli signorina, felicemente infelice (Sacco 2015) e L’idillio tra l’uomo e l’ombra (Nulla Die 2016). 

La Pat zone è la sua rubrica settimanale di costume, società e cultura, su http://www.isavona.com.

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Focu friddu

di Mauro Mirci*

Ho vissuto altre emergenze, ma sono state emergenze diverse. Spesso sono state emergenze di fuoco. Vampe che volano alte nel cielo. Alberi che divampano in pochi istanti, e il crepitio assordante del legno che si disintegra e trasforma in cenere e fumo. Di giorno tutto si oscura, le nubi nere di fumo si allargano in alto e incombono su di te, che con la tua maglietta blu con il tricolore sei lì a tentare qualcosa per combattere il mostro di fuoco che si mangia i boschi, che si mangia i seminativi, che circonda i villini e fa fuggire la gente da dentro. Oppure si tappa in casa, per sfuggire al fumo pesante, asfissiante, di un odore tanto grave da sembrare solido. E tanto si oscura il cielo di giorno, tanto si rischiara di notte. Ogni albero che brucia sembra una supernova e tu ti senti indifeso, inutile. Vorresti gettarti in avanti, combattere le fiamme in qualche modo. Osservi i vigili del fuoco e le squadre dell’antincendio forestale che sparano ettolitri di acqua con le manichette, con i cannoni montati sulle autocisterne. E di giorno lo bombardano con gli aerei, il fuoco, con gli elicotteri. È una guerra. Il nemico è perfido e tremendo. I nostri hanno le divise, anche io ne indosso una. Contro il nemico si spara, lo si bombarda. C’è una linea del fronte ma non c’è una terra di nessuno, perché il nemico non puoi ucciderlo e avanza senza timore della tua reazione.

Il nemico puoi solo fermarlo se.

Se il vento non gli è favorevole, se la temperatura scende, se la vegetazione è rada, se hai abbastanza acqua, abbastanza uomini, abbastanza energia da resistere fino a che lui non sarà abbastanza addomesticato da desistere. O sazio tanto da non volersi più mangiare fette di bosco e fondi agricoli.

Lo vedi, il nemico. O lo percepisci. comunque. C’è il fumo, ci sono le fiamme, c’è la fatica, c’è la disidratazione. E i sensi di colpa per non avere anche tu un naspo per le mani, o un flabello, una pala, qualunque attrezzo per dare addosso al fuoco. Perché sei un funzionario, un tecnico che, attraverso i percorsi strani e imprevedibili della burocrazia comunale, s’è trovato a fare questo mestiere strano, dove al consueto lavoro da scrivania si inframmezzano momenti di affanno e concitazione. E allora i fascicoli, i protocolli, le delibere diventano qualcosa di poco importante e la priorità diventa telefonare al sindaco, ai volontari, ai colleghi dell’ufficio tecnico, ai poliziotti municipali, fare monitoraggio, pianificazione, passarsi informazioni, raccomandarsi linee d’azione, spostare personale e mezzi da una parte all’altra del territorio, intuire un attimo prima del fronte di fuoco dove questo si dirigerà e inventarsi qualcosa per proteggere l’ospedale o l’agriturismo. Lo sai che l’incendio d’interfaccia si combatte così, che stai lì per quello. Ma di sentirti in colpa non puoi evitarlo lo stesso.

Oppure c’è il fango. Finisce la stagione del fuoco e inizia quella delle piogge. Spesso il fango è causato dal fuoco. Boschi rasi al suolo dalle fiamme, canaloni spogli e incisi a fondo dalle acque piovane, ormai non frenate o ostacolate da una decorosa copertura vegetale. Lo sai: a settembre, con le prime piogge, si alzano i livelli di rischio. Consulti il bollettino del dipartimento regionale della protezione civile e speri che le segnalazioni di rischio che leggi sia, come spesso capita, solo virtuale. Ma ogni tanto è reale e tangibile. Il cielo si oscura di colpo e viene giù il diluvio. Preghi che i terreni reagiscano con ragionevolezza, che l’acqua defluisca beneducata a valle, che i torrenti s’ingrossino quel tanto e non di più. Quando non succede, inizi a sentire le sirene dei vigili del fuoco. E dai il via alla consueta routine dell’emergenza: telefonate, spostamenti di mezzi e personale, chiamate al sindaco, tutto come sopra.

Il nemico, in questo caso, è ancora più infido e ha vita facile contro gente che ha perduto la memoria del suo territorio. Magari abiti su un vecchio accumulo di frana e non lo sai. Oppure a valle di una discarica di materiali di riporto e rifiuti vecchia di secoli. Hai sentito parlare di dissesto idrogeologico in tv e non ci hai fatto caso. Nemmeno lo sai cosa fa un geologo. Ma il Fato non tiene conto di queste attenuanti, e il dissesto idrogeologico ti piomba in casa sotto forma di una frana di modeste dimensioni che sfonda la parete del soggiorno e ti salvi solo perché eri al piano di sopra.

Ecco, di eventi come questi non riesci a dimenticarti. Arrivi sul posto e riesci a gioire perché vedi il personale del 118 con le braccia conserte. E i miracolati per strada. Scalzi, piangenti, vocianti. Vivi.

Anche in questo caso ti senti in colpa. Vorresti non pensare. Vorresti avere una zappa e spostare tutto quel fango. O rimuovere i massi dalla carreggiata. Vorresti metterti a vociare anche tu come i miracolati, urlare contro la malasorte, contro il governo, contro il sindaco, contro chi dovrebbe fare e non fa. Regredire allo stato bestiale e grugnire e bestemmiare. Tutto, ma non pensare.

Ma hai la casacchina blu col tricolore. Ti tocca fare la faccia di chi ne ha viste ben altre, di quello che sa cosa fare e come farlo. Raccomandi: niente panico. Chiedi: ditemi come state, se avete un posto dove dormire questa notte. Ti informi delle loro necessità immediate e ti sforzi di trasmettere serenità e presenza a sé stessi. Perché è giusto così, te lo hanno insegnato che si fa così. Vicinanza ma calma e serenità. Empatia e distacco.

Un ossimoro.

 

La costante comune è il rumore. Ogni volta decibel a livello altissimo. Suoni del fuoco, delle sirene, dei soccorritori. Richiami, bestemmie, ordini, gracchiare delle radio.

Ma oggi è un’emergenza del silenzio. Ogni tanto il passaggio di un’automobile. Oppure la mia stessa voce, distorta dagli altoparlanti, che raccomanda di non uscire di casa, di stare calmi, di non fare incetta di roba nei supermercati. “Focu friddu”, fuoco freddo, diceva mia madre quando voleva significare un evento terribile ma sotterraneo. Come quello attuale.

Il nemico, questa volta, è invisibile, silenzioso, volatile. Viaggia con il minimo soffio d’aria, si nasconde sugli oggetti di sempre. Si annida sulla tua stessa pelle. Non sono più il fumo, il fuoco o una tonnellata di fango che possono ucciderti. Sono i gesti usuali, il saluto a un amico, il vicino di scrivania che parla senza mascherina, la signora con la borsa della spesa in coda assieme a te al supermercato. Per salvarsi non è sufficiente allontanarsi dalla zona di rischio. Le mappe, le aree rosse, sono inutili.

Un virus, una cosina grande, al massimo, 300 nanometri. Un nanometro equivale a un miliardesimo di metro. Per capirci, se dividiamo un metro per mille otterremo millimetro. Ecco, adesso prendiamo quel millimetro e dividiamolo per mille. Ancora troppo grande. Prendiamo questa millesima parte di un millimetro e dividiamola per mille. Quello è un nanometro. Prendetene 300 e avrete l’idea delle dimensioni di un virus. Invisibile anche al microscopio. Occorre quello elettronico per vederlo, e solo con particolari accorgimenti.

Quindi creiamo la nostra personale difesa. Ce ne stiamo ognuno all’interno di un’ideale sfera di almeno un metro di raggio. Timorosi del respiro altrui, o dell’altrui superficialità. Se sei costretto fuori di casa cerchi di non pensare al rischio. Metti la tua mascherina di panno, calzi i guanti, e lavori. Ignorare il rischio è irragionevole. Eviti contatti stretti, apri finestre, tieni a distanza gli altri, cospargi mani e oggetti con quantità esagerate di disinfettante. Lo sai che qualcosa ti sfuggirà sempre. La tastiera del computer. Chi l’ha utilizzata oltre me? E il volante dell’auto di servizio? E il sedile? Gli abiti? Rischio di portarmi il virus in camera da letto quando mi spoglio per andare a dormire?

Poi arriva momento in cui ti rendi conto che puoi affidarti solo a gesti automatici, a rituali d’igiene ormai interiorizzati. Alla buona sorte. Semplicemente, è meglio non starci a pensare, altrimenti vince la paura. La paura è un ottimo amico: ti tiene sempre sul chi vive, ti suggerisce attenzione e prudenza. Purché non superi la soglia dell’utilità. Allora paralizza ogni pensiero e ogni azione.

Lo hai fatto diventare il tuo esercizio quotidiano: gestire la paura e assumerne la dose necessaria, non di più, portare avanti il tuo lavoro sforzandoti di fingere massima serenità, giusta misura, adeguata applicazione, alta attenzione, necessario ottimismo.

Immerso nel silenzio della città intorno a te.

Sono stato immerso in una simile cappa di silenzio nel giugno del 2009, a Onna. Attorno a me, e ad altri con la casacchina blu, rovine di vecchi cascinali, un vigile del fuoco costernato, un’insegna stradale sopravvissuta al terremoto, un deposito di auto estratte dalle rovine dei rispettivi garage. Ma era un silenzio dovuto all’inutilità del rumore. Quaranta corpi erano già stati estratti dalle rovine mesi prima e sepolti. E le murature pericolanti erano state abbattute. E le macerie da spostare erano state spostate. Non c’era necessità di fare altro. Solo il vigile del fuoco costernato se ne stava accanto a un cumulo di rovine, con le mani sui fianchi e la testa bassa, come a riflettere sul da farsi senza che gli venisse nulla in mente.

Focu friddu. Uffici silenziosi, piazze deserte, passanti solitari dai volti nascosti. Ogni tanto rabbia. È la paura il segno distintivo di questi gorni. Continua e sotterranea. Onnipresente. A dispetto dei flash mob, degli inni nazionali dei richiami alla responsabilità e alla razionalità. Siamo animali sociali evoluti, ma pur sempre animali. La paura fa parte del nostro DNA, la razionalità è solo un’appendice aggiunta dopo. La struttura, però, è sempre la stessa: temiamo il fuoco, l’ignoto, l’imprevedibile, l’incomprensibile, l’invisibile.

 

Mauro Mirci, autore prolifico e dalle mille sfaccettature, per Nulla die ha pubblicato il romanzo Chi non sogna un futuro radioso? e il libro di racconti L’impavida eroina eccetera.

 

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IL NUOVO MONDO DELLA PAURA

di Dario Leone*

Ci sono due chiavi di lettura per interpretare il fenomeno che ha invischiato in maniera pressoché totale la nostra quotidianità.

La prima è che il virus sia frutto di un evento casuale e il secondo è che sia di natura causale. Sulla prima questione c’è poco da dire. Per quel che riguarda la seconda, senza scendere in scenari complottisti, potremmo dividerla in due sotto categorie: l’intenzionalità del danno e la non intenzionalità. Su quest’ultima val la pena parafrasare il concetto di Gallino, secondo il quale il Finanzcapitalismo ha prodotto strutture e fenomeni che ormai non sono più controllabili da coloro che li hanno creati.

L’intenzionalità (presunta), stando a ciò che viviamo, introduce empiricamente dei semi di dittatura che vanno verso l’ampliamento delle condizioni psico – sociali già abbondantemente sviluppate dalla globalizzazione: individualismo, controllo pubblico, diffidenza verso il prossimo, assenza totale di dimensione collettiva e dunque, perdita della funzione risolutrice delle istituzioni politiche che, in questo caso, hanno delegato all’impresa privata sacche enormi del proprio welfare e in primis la Sanità con quel che ne consegue. Pertanto, quale che sia la chiave di lettura, bisogna sempre tenere a mente che è il sistema economico che determina quello politico fin dalle origini dei sistemi sociali. Con un virus di questa portata non si possono non rispettare le norme restrittive ma non si può nemmeno non ipotizzare che siano il banco di prova per un “nuovo corso” del sistema capitalista che, perdendo di credibilità e di consenso, non ha altri strumenti di sopravvivenza se non quelli della repressione che non si avvale delle pistole, ma della paura che dallo stato di vaga “liquidità” baumaniana, si solidifica repentinamente nella sua forma più spaventosa, il virus appunto.

Il costituzionalista Carlo Alberto Ciaralli, scriveva pochi giorni fa: “Sarebbe interessante capire sulla base di quale disciplina normativa, consuetudinaria o pattizia i gestori telefonici stanno fornendo, seppur anonimizzati, i dati relativi agli spostamenti dei cittadini mediante mappatura delle celle telefoniche. In questa fase drammatica, senza colpo ferire, si stanno demolendo svariati principi costituzionali. Come sempre nella storia, il processo di affidamento al “potere”, in tempi di gravi crisi, di potestà pressoché illimitate, laddove non adeguatamente governato e controllato, costituisce un punto di rottura anche per il futuro”. La questione posta dal costituzionalista è profondamente socio-politica e apre a scenari inediti che trovano nel monadismo la loro ragion d’essere favorendo un salto repentino verso un nuovo tipo di paura: l’altro.

Non il migrante, l’istrionico, l’egocentrico, il malato ma l’altro, sia esso il mio vicino di casa o un mio familiare. L’attività di divisione che sta maturando è ulteriormente alimentata dalle contraddizioni di un sistema che nel III Millennio non riesce a contenere un virus, moltiplicando il tempo necessario per debellarlo promuovendo un radicamento ancor più efficace della paura dell’altro e del monadismo. Queste contraddizioni non sono figlie del fato, ma di un preciso sistema socio- economico, il Capitalismo che svende la sanità pubblica al miglior offerente, limita con il numero chiuso l’accesso ai corsi universitari di medicina e depotenzia complessivamente il welfare. Infatti ad essere colpita non è solo la Sanità, ma anche i lavoratori nei loro più elementari diritti. Da svariati giorni quaranta Sindaci della Val di Sangro in Abruzzo chiedono a gran voce che si fermino le fabbriche. La Sevel (FCA) ha capannoni che ospitano sei mila operai. Ma la produzione prosegue. Si puniscono i lavoratori in lotta per la propria sicurezza ma si consente agli stessi di lavorare ammassati dentro ambienti chiusi dietro la promessa di un’indennità di rischio di € 100. Al di là della contingenza e dei drammi che il virus sta creando, dobbiamo chiederci, quando ne usciremo, che tipo di mondo sarà partorito da questa nuova “globalizzazione della malattia e della morte”.

* Dario Leone, sociologo specializzato in ricerca sociale, politiche della sicurezza e criminalità, si occupa dei cambiamenti politico-culturali e dei mutamenti nei sistemi socio-relazionali. Ha pubblicato Le gabbie sociali della Globalizzazione (Susil, 2014), L’amore ai tempi della Globalizzazione (Aracne, 2017) e collabora con vari periodici.

Per Nulla die ha pubblicato

Identità liquida, disagio solido

Con la prefazione è di Massimo Zamboni, compositore e chitarrista di CCCP-Fedeli alla linea, CSI-Consorzio suonatori indipendenti e scrittore.

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Non c’è più tempo

di Alessandra Litrico*

 

 

 

 

Quale distanza?
Quella giusta,
imposta, normata.
Dobbiamo stare dentro
le case
le cose
le parole
gli abbracci immaginati.
Un giorno si faranno carne.
Sì, un giorno, non adesso.
Tre settimane, cinque giorni, due minuti
ciascuno barricato
nel suo tempo fermo
immobile
in quarantena.
La relatività contagia le cose.

Vedi?
Il sugo
cuoce lento
senza fretta,
lenzuola stese al sole
come trionfi di bandiere
in attesa dell’inno delle diciotto.
Il tempo ha smesso di esistere

è altro
si ribella al nostro agire.
La natura
implora ascolto
forse potevamo fare di più,

molto di più,
dovevamo, avremmo potuto.
Affanno tra condizionali
fuori il mondo patisce
la perdita,
il silenzio maledetto
l’assenza.
Vedi?
Condivide il dolore
con canti dolorosi
dagli stretti balconi.
Qui, ora, restiamo a casa.
Noi, tu, voi.
Non loro.
Lei mantiene la distanza
l’incedere di lui è lento,
gli occhi trafitti dalla luce
rivolti al frutto sacro
dell’amore cieco.
Inerme,
piange in mezzo al verde
appena a un metro da chi corre
senza sapere dove.
Forse ha capito
molto più di loro.
Se potesse parlare
-Io immagino-
direbbe torniamo a casa
non voglio andare
lasciatemi riposare
proteggetemi
non voglio stare qui.

Salvatemi
salvateci, vi prego
lo sto urlando da qui
senza parole.
Che becera cecità
che volgare meschinità
avere il coltello
dalla parte del manico
e poi usarlo.

 

*

Alessandra Litrico è nata a Catania nel 1985. Nel 2015 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Strade inquiete (Watson) e nel 2016 un suo aforisma è stato pubblicato nel progetto Bookpusher (Giulio Perrone Editore).

Laureata in giurisprudenza, si occupa di editoria e comunicazione on line per Dario Flaccovio Editore.

Rediviva è la sua prima raccolta poetica.

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La scuola e gli scrittori al tempo del coronavirus

La scuola, gli scrittori e il coronavirus

Molti insegnanti sono pure scrittori. O, se si vuole, molti scrittori sono pure insegnanti. E saggisti. E poeti. O più di una di queste cose insieme.

Che cosa ne pensano gli insegnanti-scrittori (o anche saggisti e poeti) di quello che sta accadendo di fronte alla improvvisa privazione della scuola e del tentativo di sopperire in un qualche modo alla impossibilità di tenere lezione alle classi? Vale a dire di tenere lezione all’interno delle aule?

Riuscirà mai la cosiddetta didattica a distanza a sopperire a tale mancanza?

Numerosi autori della Nulla die appartengono al mondo della scuola e delle università: vi sono maestre/i, insegnanti, pedagogisti, psicologi, sociologi, professori di diverso orientamento e che insegnano varie discipline.

Oggi a raccogliere l’invito a esprimersi sull’argomento è Salvatore Giordano (in fondo al post una sua breve presentazione).

“Un casino, prof.” Così uno studente riassume quello che sta accadendo nell’interazione fra lui, i suoi insegnanti e i propri compagni. “Ma davvero i proff pensano che assegnando qualche compitino – ‘un test!’ – si possa fare scuola?” m’incalza accompagnando il messaggio con una faccina gialla disorientata.

E come dargli torto?

Sicuramente no: non si può fare scuola così.

Magari, se fosse in un’aula, i suoi docenti gli farebbero notare che “casino” si può esprimere in qualche altro modo: e gliene enumererebbero alcuni. Se fosse in classe: perché così non è a scuola e non gli stanno facendo scuola. Al più possono impartirgli qualche istruzione, dargli qualche suggerimento (in merito a questo o a quello), magari un’utile imbeccata, ma non certo lezioni. L’interazione face to face con il contatto visivo e uditivo a scuola sono indispensabili, ineludibili, necessari, imperdibili. Sono come l’acqua per la sete. La puoi sostituire con una bevanda di qualunque genere, anche zuccherata o alcolica, a condizione che questa contenga per lo più acqua.

Insomma “fare scuola” ha poco a che vedere con l’accendere monitor, richiedere autorizzazioni al trattamento dei dati, inviare e ricevere file. E nemmeno con l’assegnare compiti. Sono cose utili, per carità, ma la scuola è condivisione.

Condivisione di aliti e di un particolare tipo di contatto fisico e chimico.

Sul piano fisico si pensi al contatto, quasi un legame, visivo e uditivo. Ma anche alle pacche sulle spalle, alla contiguità gomito a gomito e pure agli abbracci dopo che non ci si vede da un po’.

E dal punto di vista “chimico”, pensate al “senso chimico” per eccellenza, l’olfatto: chiunque frequenti una scuola conosce quella necessità di “cambiare aria” e di aprire le finestre (anche quando fa freddo) almeno a ogni cambio d’ora e ogni volta che si entra in una qualunque aula.

E allora? Ben vengano ora contatti informali fra docenti e studenti, e si approfitti di questi per approfondire e quello che si è studiato insieme e quello che i giovani magari stanno esplorando motu proprio.

E non per rimanere dentro il tema che quasi ogni cosa oggi proviene dalla Cina, concludo con un’antica massima cinese attribuita al filosofo Lao Tzu, vissuto, ammesso che la sua esistenza sia reale, nel VI secolo (c’è chi lo scrive Lao Tse, ma vogliamo metterci a discutere sulla grafia? non siamo mica a scuola…):

“Non fare nulla è meglio che essere occupati a fare nulla”.

 

Salvatore Giordano, editor e sociologo, insegna le scienze sociali. È autore di molte Opere e curatore di tante altre. Come docente firma la consulenza didattica per il manuale di Scienze Umane appeno uscito per Giunti – Treccani.

Con Nulla die ha pubblicato:

Il pesce subaereo libro per l’infanzia

Ustica romanzo corale che ha dedicato alla memoria dei caduti nei cieli di Ustica e a chi ne mantiene in vita la memoria

Lasciare libero lo scarrozzo, ebook

A Dio Piacendo, saggio psico-sociologico sulle contraddizioni della modernità

Piazza No MUOS e Muos. Ultimo atto (con Antonella Santarelli)

Guazzabuglio di stati selvaggi.

La sua pagina fb è Salvatore Giordano autore ed editor.

 

 

 

 

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#ioacasaleggo #iorestoacasa

Nel rispetto delle inderogabili precauzioni igieniche, delle indicazioni emanate dalle autorità sanitarie e scientifiche, ora confortate pure da disposizioni delle competenti autorità statali, le presentazioni, i firmacopie e ogni altro evento in presenza previsto in Italia con gli autori della Nulla die sono annullati e rinviati a data da destinarsi.

Sebbene il momento sia difficile, tutte le altre attività della casa editrice continuano regolarmente e, come sempre, sono garantite le consegne ai lettori e all’intera filiera della distribuzione in tutto il territorio nazionale e all’estero.

Invitiamo tutti ad approfittare del momento per sostenere l’editoria indipendente di qualità richiedendo i libri sia nei canali delle librerie sia nei bookstore on line.

Sullo store nulladie.com tutti i titoli sono in offerta e anche in marzo e aprile sono numerosi i libri in uscita e molti altri sono in preparazione per i prossimi mesi per i diversi generi della narrativa, della saggistica e per la poesia.

E il blog dell’editore continuerà ad arricchirsi di contenuti e novità.

L’augurio che l’editore e gli autori Nulla die rivolgono ai lettori e alle lettrici è di tornare presto a ritrovarci in presenza per condividere idee, opinioni e riflessioni. Sempre all’insegna della cultura e delle buone letture.

#iorestoacasa #ioacasaleggo

 

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Il secolo breve

Nota editoriale

Il secolo breve è un progetto editoriale, articolato su più collane, che la casa editrice Nulla die avvia nel corso del 2018: a cento anni dal 1918 e a cinquanta dal ’68. Fra questi due eventi, la guerra e la contestazione, vi è un abisso. Un’impressionante distanza. Eppure il 900 è stato ed è il secolo breve.
Nel corso del 2018 sono tanti gli eventi che commemorano questi due avvenimenti del passato in mezzo ai quali se ne collocano altri come, ad esempio, per ciò che riguarda l’Italia, l’entrata in vigore della Costituzione nel ’48 con il ripudio della guerra e del fascismo. Di quello stesso fascismo che solo dieci anni prima, alla vigilia della seconda guerra mondiale, aveva promulgato norme di ben altra natura: le leggi razziali.

Che cosa si propone il secolo breve e quali testi accoglie

Nel progetto il secolo breve trovano posto scrittori e poeti ma anche filosofi, sociologi, artisti, storici e scienziati, in una parola — che allora aveva davvero un senso — intellettuali che con la loro opera hanno contribuito alla cultura italiana e alla vita materiale di allora e di oggi.
Vi trovano posto in due modi: attraverso la riedizione delle loro Opere, qualora di queste vi fosse la necessità di nuove edizioni, e con la proposta di saggi critici di autori a noi contemporanei.
Il progetto si propone, nel corso degli anni, di abbracciare l’intero arco del secolo breve. E prende avvio dal primo Novecento e da quegli autori di fine Ottocento che nei decenni successivi hanno impresso la loro orma nella cultura del nostro tempo e di quello appena trascorso.
Il punto di osservazione privilegia l’Italia, ma senza circoscriverla, e include Opere di autori — e autrici — provenienti dal resto del mondo.

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Senso d’amore sparso

 

Graziella Atzori, Giorgio Micheli – Senso d’amore sparso

Collana Parva res / Poesia

ISBN: 978-88-6915-047-0

Prima edizione agosto 2016

€ 10, 00      pagine 92

Quarta

Viaggio in versi a due voci sull’amore.

La sua energia divina sale nel corpo dal primo chakra (vortice) coccigeo fino al settimo, posto sulla sommità del capo, che ci collega al Tutto, secondo il Tantra yoga.

L’amore sparso ovunque libera dalla solitudine, salva dalla morte.

Graziella Atzori 

Pubblicazioni:

Per noi l’eternità poesie, Oppure. L’anima persa poesie, Aletti. Fellini, el amor brujo, zibaldone della speranza, Edizioni del Leone. Ada Negri in Scrittrici italiane dell’Otto e Novecento Le interviste impossibili, Bibliografia e Informazione. Saudade romanzo, David and Matthaus. Meditazioni su Chamber Music poesie di Joyce Ibiskos. La filastrocca del girotondo, Laboratorio Italiano ebook.Caro Fellini, Narcissus 2014. È presente in Gli angeli di Vergarolla, Ibiskos.

Giorgio Micheli 

Pubblicazioni:

I peschi in fiore poesie, Aletti. Quattro romanzi con Talos: Un vuoto incolmabile, Sette secondi, Il vecchio e Celestine, Odore di salsedine. È presente in Gli angeli di Vergarolla, Ibiskos.

Conduce un programma culturale in RadiocityTrieste Web.

Ordina senza spese su nulladie.com o rivolgiti alla tua libreria preferita. Nulla die è distribuita in tutta Italia e in Canton Ticino.

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Fenomeno Pro Ana

Silvia Guerini Rocco – Fenomeno Pro Ana

Collana Nuovo Ateneo

ISBN: 978-88-6915-055-5

Prima edizione agosto 2016

€ 12, 50      pagine 134

Quarta

Che cosa c’è di desiderabile nel voler essere anoressiche? Perché tante ragazze si scambiano su internet consigli per raggiungere l’anoressia, o una magrezza estrema? E su questi siti si promuove davvero l’anoressia, o si cerca invece supporto per raggiungere una perfezione malata? Un’analisi accurata, chiara e accessibile ci permetterà di scoprire, attraverso questo libro, cosa si cela davvero dietro il fenomeno che, negli ultimi anni, attraverso il Web, sta favorendo un’inspiegabile nuova diffusione delle problematiche alimentari.

Silvia Guerini Rocco, nata nel 1985, lavora come psicologa libero professionista nelle province di Lodi e Monza Brianza. Questo è il suo primo saggio.

Ordina senza spese su nulladie.com o rivolgiti alla tua libreria preferita. Nulla die è distribuita in tutta Italia e in Canton Ticino.

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